A che cosa serve la laurea in Italia? Uno studio della Commissione europea sugli sbocchi occupazionali dei laureati italiani
11 giugno 2015 di Mauro Varotto
L’ultima legge approvata dal Parlamento italiano con l’obiettivo di incentivare la qualità e l’efficienza del nostro sistema universitario – la legge 30 dicembre 2010, n. 240 – si apre con queste parole solenni:
“Le università sono sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e sono luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze; operano, combinando in modo organico ricerca e didattica, per il progresso culturale, civile ed economico della Repubblica” (art.1, comma 1).
Eppure, la foto scattata dalla Commissione europea in un recente studio, che ha analizzato gli sbocchi occupazionali offerti agli studenti dal sistema universitario italiano, è davvero impietosa.
In estrema sintesi, i risultati dello studio sono i seguenti: in Italia, rispetto alla situazione degli altri Paesi europei, i laureati sono pochi; quei pochi faticano a trovare un lavoro perché sono impreparati e non hanno esperienza; infine, anche quando trovano un lavoro, sono sottopagati.
Lo studio analizza, compara e sintetizza i dati provenienti da varie fonti indipendenti, sia nazionali che internazionali: dalla “Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati italiani”, pubblicata da AlmaLaurea nel 2013, al “Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca”, pubblicato dall’ANVUR nel medesimo anno; dai più recenti dati del sistema informativo “Excelsior”, gestito da Unioncamere ai dati ISFOL sull’occupazione fino alle statistiche internazionali dell’OCSE.
Esiti occupazionali dei laureati italiani
Negli ultimi anni la composizione dei lavoratori, sia in Europa che in Italia, è cambiata a favore dei lavoratori laureati.
Tuttavia, sono notevoli le differenze tra l’Italia e l’Europa: come evidenzia il grafico 1, nel 2013, in Italia solo il 20% degli occupati è laureato; mentre, in Europa, i laureati rappresentano il 32% degli occupati.
Sempre nel 2013, mentre a livello europeo e nei principali Paesi europei il tasso di occupazione dei giovani tra i 25 e i 29 anni premia i laureati, in Italia avviene il contrario: il tasso di occupati in possesso di laurea è nettamente inferiore al tasso di coloro che sono in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore (50,1% contro il 56,2%) e appena superiore ai diplomati ad una scuola secondaria inferiore (48,2%).
Quest’ultimo dato, evidenziato nel grafico 2, sembrerebbe indicare che in Italia la laurea non paga, in termini di prospettive occupazionali.
Tuttavia, se si confrontano i diplomati e i laureati degli ultimi tre anni, con un’età compresa tra i 20 e i 34 anni, si scopre che il tasso di occupazione dei laureati è superiore del 16% rispetto a quello dei diplomati. Nonostante ciò, siamo ancora sotto di 24 punti percentuali rispetto alla media europea, come si può notare dal grafico 3.
Ciò conferma che l’accesso al mercato del lavoro dei laureati italiani è più difficile rispetto ai laureati degli altri Paesi europei.
Quanto rende investire nell’Università? L’OCSE ha analizzato le differenze di reddito tra laureati e non laureati di età compresa tra 25-34 anni: in Italia un laureato ha, in media, un reddito pari al 122% rispetto al reddito di un coetaneo con un diploma di scuola secondaria superiore.
Sembra un buona notizia: ma, anche in questo caso, siamo sotto rispetto alla media dei Paesi OCSE che è del 140%.
In Italia, ogni anno di studio in più, sempre secondo l’OCSE, comporta un incremento di stipendio di circa il 5%: è uno dei valori più bassi dei Paesi OCSE.
Domanda e offerta di laureati in Italia
L’Italia ha uno dei tassi più bassi di laureati tra la popolazione adulta (16,3% nel 2013) ed ha anche il tasso più basso di laureati tra i 30 e i 34 anni di età: il 22,4% nel 2013, rispetto a una media europea che sfiora il 40%. Nel continente europeo, solo la Turchia ha meno laureati dell’Italia.
A questo dato si accompagna anche un tasso molto alto di abbandono scolastico: abbandona gli studi – i cosiddetti “drop-out” – il 45% degli studenti, come risulta dai dati dell’anno scolastico 2011-2012.
Altra caratteristica italiana: il tempo medio necessario per completare il primo ciclo di istruzione terziaria (la cosiddetta “laurea breve” di 3 anni) è di 5,1 anni; solo il 33% degli iscritti nelle università italiane si laurea nei tempi stabiliti, come emerge da una indagine ANVUR del 2014.
Altra differenza rilevante tra l’Italia e molti altri paesi dell’Unione europea riguarda l’assenza di programmi di formazione professionale terziaria non universitaria.
Nel 2011, il 100% dei laureati italiani è uscito dalle università.
Oltre il 30% dei laureati in Germania, Francia e Spagna, invece, sono usciti dai cosiddetti istituti tecnici superiori, scuole ad alta specializzazione tecnologica che offrono una formazione di livello terziario, ma non accademica.
Da allora, anche l’Italia ha creato ben 75 Istituti Tecnici Superiori, ma la partecipazione è inferiore all’1% degli studenti in corso.
Inoltre, in Italia, persino la formazione professionale offerta dalle scuole secondari superiori, non è sufficientemente basata su esperienze di lavoro.
Di conseguenza, la quota di giovani dai 15 ai 29 anni che lavorano e studiano allo stesso tempo in Italia è solo del 3,9% rispetto a una media europea del 12,9%.
E che dire del livello di competenze di base (lettura e calcolo) degli studenti italiani, anche laureati, rispetto agli studenti degli altri Paesi europei? I dati dell’indagine OCSE PIAAC del 2012, riportati nel grafico 7, parlano da soli: i nostri studenti universitari e della scuola superiore sono messi piuttosto male e hanno “performance” tra le più basse in Europa.
Dal lato della domanda di laureati, la banca dati nazionale Excelsior indica che la maggiore richiesta proviene da imprese di più grandi dimensioni, localizzate nel Nord-Ovest e nel Centro Italia; che i laureati sono richiesti in misura maggiore nel campo dei servizi finanziari e assicurativi, dei servizi informatici e altri servizi alle imprese; i laureati più richiesti sono quelli in campo socio-economico (31% del fabbisogno totale di assunzione nel 2013), seguiti da ingegneria e architettura (28%).
Il passaggio dall’università al lavoro: analisi del mercato del lavoro italiano
La citata indagine OCSE PIAAC del 2013 dimostra che in Italia vi è un “disallineamento verticale” tra le qualifiche dei giovani lavoratori e i requisiti richiesti dai posti di lavoro disponibili.
In altri termini, l’Italia ha una media di lavoratori che risultano più qualificati rispetto al posto di lavoro ricoperto, inferiore alle media europea: il 13% rispetto al 21% europeo.
Tuttavia, l’Italia primeggia per la percentuale di lavoratori scarsamente qualificati rispetto alla posizione ricoperta: il 22%.
Questo dato dimostra che, nonostante il titolo di studio, il 22% dei laureati italiani non ha le competenze necessarie per ricoprire il posto di lavoro offerto.
Lo stesso dato può anche significare che in Italia funzionano molto male i meccanismi di incontro tra domanda e offerta di lavoro: il che spiegherebbe perché gli esiti occupazionali dei laureati italiani siano di gran lunga peggiori rispetto ai risultati dei coetanei di altri Paesi europei.
Infatti, lo studio della Commissione europea fa notare che i giovani laureati italiani hanno molto più successo nel mercato del lavoro dei Paesi esteri, rispetto al mercato del lavoro domestico.
Inoltre, in media, rispetto ai loro coetanei che lavorano in Italia, i laureati italiani che lavorano all’estero hanno stipendi più alti (e in crescita più rapida), hanno più spesso contratti di lavoro a tempo indeterminato e il titolo di studio che possiedono è un ottimo biglietto da visita per trovare lavoro.
Questi dati suggeriscono che in Italia vi sono problemi anche dal lato della “domanda”: infatti, le aziende italiane adottano spesso procedure – per usare un eufemismo – “informali” per l’assunzione di laureati.
In Italia non esiste un moderno ed efficiente sistema di collocamento, pubblico e privato: quasi tutte le assunzioni si basano sulle reti di relazioni personali.
Conclusioni
Lo studio della Commissione europea analizza anche altri profili interessanti, che potranno essere approfonditi con la sua lettura integrale.
In conclusione, ciò che emerge da questo studio è che il sistema universitario in Italia non è in grado di fornire abbastanza laureati nei profili più richiesti dal mondo del lavoro, né una formazione adeguata, né le capacità e le esperienze necessarie per soddisfare la domanda di lavoro.
Non vi è corrispondenza tra le competenze fornite dal sistema universitario italiano e le competenze richieste dalle imprese e dal mondo del lavoro.
Alcune di queste carenze nascono dalle caratteristiche stesse del sistema di istruzione universitaria/terziaria dell’Italia: assenza di servizi di orientamento professionale e di consulenza; debolezza dei sistemi di apprendimento basati sul lavoro, sia a livello terziario che secondario; lunga durata degli studi, ben oltre i limiti di legge; quota relativamente elevata di laureati in materie con prospettive occupazionali più limitate, quali le scienze umane e le arti.
A ciò sono da aggiungere le debolezze del sistema educativo italiano nel suo complesso, che si traducono in competenze di base relativamente basse per i laureati italiani.
Infine, inefficienti canali di accesso al mercato del lavoro aggravano questi problemi: le imprese italiane utilizzano raramente i servizi pubblici o privati per l’impiego, si affidano molto di più ad “amici e parenti”.
Eppure, osserva lo studio, la strategia dell’Unione europea “Europa 2020” fornisce, anche all’Italia, indirizzi e risorse finanziarie notevoli per affrontare questi problemi.
ACCESSO DIRETTO ALLE FONTI DI INFORMAZIONE:
Il testo integrale dello studio è pubblicato sul sito WEB della Commissione europea: