Una scelta mancata nella crisi dell’euro
Negli anni successivi alla grande crisi finanziaria globale, diversi Stati dell’Unione europea si sono trovati sull’orlo dell’insolvenza. Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia hanno ricevuto programmi di assistenza finanziaria congiunti da parte dell’Unione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, sotto il coordinamento della cosiddetta “troika”.
A distanza di pochi anni, proprio alcuni di questi Paesi sono tornati a crescere più rapidamente della media europea. L’Irlanda, in particolare, è spesso citata come esempio di uscita relativamente rapida da un programma di salvataggio: concluso nel 2013 un piano triennale da 67,5 miliardi di euro, il Paese ha recuperato accesso ai mercati, migliorato i conti pubblici e avviato una fase di crescita sostenuta, accompagnata da una riduzione della disoccupazione e del debito pubblico.
Questi dati hanno riaperto una domanda scomoda, ma legittima: nel 2011 anche l’Italia avrebbe dovuto accettare un programma di assistenza internazionale?
L’autunno 2011: l’Italia sull’orlo della crisi
Nell’autunno del 2011 l’Italia attraversò una delle fasi più delicate della sua storia economica recente. Lo spread sui titoli di Stato raggiunse livelli critici, i mercati finanziari misero in dubbio la sostenibilità del debito pubblico e, per la prima volta, la Banca centrale europea fu costretta a intervenire acquistando titoli italiani sul mercato secondario.
Il rischio di una crisi di liquidità e di un accesso compromesso ai mercati era concreto. In quel contesto maturò il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti, accompagnato dalla promessa di una stagione di riforme strutturali e di risanamento credibile dei conti pubblici.
La scelta compiuta allora fu netta: l’Italia rifiutò l’assistenza finanziaria europea e internazionale, rivendicando la capacità di “cavarsela da sola” e di preservare la piena autonomia nelle politiche economiche e di bilancio.
Autonomia formale o sovranità efficace?
Quella decisione fu presentata come una difesa dell’orgoglio nazionale e della sovranità economica. Tuttavia, già allora, si poneva una questione di fondo: che cosa significa realmente sovranità in un’unione monetaria incompleta come l’eurozona?
Accettare un programma di assistenza avrebbe comportato:
- una perdita temporanea di autonomia decisionale;
- una forte condizionalità sulle politiche di bilancio e sulle riforme;
- un controllo esterno stringente sull’attuazione degli impegni.
Rifiutarlo significava, invece:
- mantenere formalmente la piena competenza nazionale;
- affidarsi alla credibilità delle riforme annunciate;
- contare implicitamente sull’azione della BCE come rete di sicurezza.
La domanda centrale, allora come oggi, non è ideologica, ma politica: l’autonomia senza capacità di riforma è davvero preferibile a una sovranità condivisa ma efficace?
Tre anni dopo: i risultati della scelta italiana
A distanza di tre anni dalla crisi del 2011, il bilancio appariva problematico.
L’Italia continuava a presentare:
- un debito pubblico elevato e strutturalmente rigido;
- una crescita anemica;
- una disoccupazione persistentemente alta;
- il rischio concreto di deflazione.
Sul piano politico, molte delle riforme annunciate come decisive per uscire dalla crisi erano state:
- attenuate;
- rinviate;
- o parzialmente smantellate.
La sequenza di governi succedutisi non riuscì a costruire un disegno riformatore coerente e credibile nel tempo. In ambito europeo, la “flessibilità” concessa all’Italia si tradusse soprattutto in proroghe e rinvii, più che in un cambiamento strutturale del modello economico.
Nel frattempo, i mercati finanziari continuarono a segnalare una fiducia fragile, come dimostrato dai ripetuti declassamenti del debito sovrano italiano, arrivato pericolosamente vicino alla soglia dei titoli “speculativi”.
Un confronto scomodo: chi ha accettato l’assistenza e chi no
Il confronto con i Paesi che avevano accettato l’intervento della troika restava inevitabile.
In Irlanda, Portogallo e Spagna:
- le riforme furono imposte dall’esterno ma attuate con continuità;
- le inefficienze strutturali furono affrontate in modo più deciso;
- la ripresa economica risultò, nel medio periodo, più robusta.
Un dato particolarmente significativo riguardava il clima politico e sociale: nei Paesi sottoposti a programmi di assistenza, la fiducia nell’Unione europea risultava spesso più elevata rispetto a Stati che, come l’Italia, avevano rifiutato l’intervento esterno.
Dove l’Unione era stata presente in modo diretto e visibile, assumendosi anche la responsabilità delle scelte difficili, i sacrifici erano stati percepiti come parte di un percorso con un obiettivo chiaro.
Una lezione per l’integrazione europea
La storia non si scrive con i “se” e con i “ma”. Tuttavia, è legittimo interrogarsi sugli effetti di una scelta diversa.
Se l’Italia avesse accettato nel 2011 un programma di assistenza:
- avrebbe probabilmente subito una perdita temporanea di autonomia;
- ma avrebbe potuto beneficiare di un quadro riformatore più coerente;
- e forse recuperare più rapidamente credibilità e crescita.
Questa riflessione porta a una conclusione più ampia: nell’Unione europea, la crescita economica non è un automatismo né il risultato di vincoli esterni, ma una questione di volontà politica nazionale.
L’Unione europea, per scelta dei suoi Stati membri, dispone di strumenti limitati in materia di politica economica. La BCE può garantire stabilità monetaria; l’UE può coordinare e sorvegliare; ma solo i governi nazionali possono realizzare riforme strutturali credibili.
Attribuire all’Unione europea o alla “troika” le responsabilità delle difficoltà nazionali è spesso un comodo alibi. La vera linea di demarcazione passa tra chi usa l’integrazione europea come leva per riformare e chi la utilizza come schermo per rinviare le scelte difficili.
Conclusione
Riletta oggi, la scelta italiana del 2011 appare come un bivio mancato. Non tanto tra austerità e crescita, quanto tra:
- una sovranità difesa formalmente ma esercitata con difficoltà;
- e una sovranità condivisa, ma potenzialmente più efficace.
Questa tensione attraversa ancora oggi il dibattito europeo. Ed è per questo che la domanda iniziale resta attuale: non se la “troika” fosse auspicabile, ma se l’Italia fosse davvero pronta a riformarsi senza di essa.
ACCESSO DIRETTO ALLE FONTI DI INFORMAZIONE:
Sui meccanismi europei di assistenza finanziaria che sostengono gli Stati membri dell’Unione europea in difficoltà e preservano la stabilità finanziaria dell’Unione e dell’area dell’euro, si veda il sito della Commissione europea, dove sono anche indicati i Paesi dell’Unione che sono stati o sono ancora oggetto dei programmi di assistenza.
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3 gennaio 2025 – Riforma governance economica UE: impatti sul bilancio 2025 dell’Italia
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