Nel 2011 era meglio chiamare la “troika” anche in l’Italia?

8 dicembre 2014 di Mauro Varotto

In questi giorni, leggo sui quotidiani economici nazionali la descrizione dei “miracoli economici” in atto negli Stati dell’Unione europea che, negli ultimi tre anni, sono stati salvati dalla bancarotta dai cospicui prestiti erogati dall’Unione europea (anche con fondi italiani), dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale e, soprattutto, dall’intervento della cosiddetta “troika”.

Ad esempio, ieri “Il Sole 24 ore” ha dedicato alla situazione dell’Irlanda un interessante articolo.

Appena un anno fa, questo Paese usciva da un piano di salvataggio triennale da 67,5 miliardi di euro, seguito, come qualcuno ricorderà, allo scoppio della bolla immobiliare e al conseguente tracollo del sistema bancario e delle finanze pubbliche. L’Irlanda, in tre anni, è diventata più stabile e più forte economicamente e ha congedato la “troika” dei creditori (UE, BCE e FMI).

La stessa agenzia di rating che, nei giorni scorsi, ha declassato i titoli di Stato italiani, ha, invece, promosso proprio l’Irlanda, prevedendo per la sua economia un incremento medio annuo del PIL del 3,7% nel prossimo triennio, una disoccupazione che, nel 2017, dovrebbe scendere dal picco del 15% degli anni della crisi al 9%, e un debito pubblico che, dall’attuale livello del 117%, dovrebbe abbassarsi, sempre entro il 2017, al 91,4%.

Le scelte dell’Italia nel 2011

Nell’autunno del 2011, al culmine di una terribile crisi finanziaria nella quale lo Stato italiano si trovava a un passo dal fallimento, con la Banca centrale europea costretta ad acquistare, per la prima volta, i nostri titoli di Stato (anche allora, come oggi, declassati a un livello prossimo al valore di “spazzatura”), la scelta dell’Italia fu di tentare di cavarsela da sola, rifiutando l’aiuto finanziario europeo e internazionale e l’intervento della “troika”. Come si ricorderà, ciò avvenne con il passaggio dall’ultimo governo Berlusconi al governo Monti.

Assicurare al nostro Paese la più completa autonomia nel campo delle politiche economiche fu, all’epoca, considerato un valore irrinunciabile: l’Italia sa che cosa deve fare e non ha bisogno dell’aiuto di nessuno, andò a dire Monti nelle varie sedi europee e internazionali.

Alla luce della situazione attuale, è stata una scelta davvero indovinata e, soprattutto, si è rivelata una scelta lungimirante per il nostro Paese?

A tre anni da quella scelta e dopo ben tre diversi governi, infatti, l’Italia continua ad essere il malato d’Europa, afflitta da sindromi che ormai sembrano divenute “croniche”: il debito pubblico, la disoccupazione, la bassa crescita e, ora, la deflazione.

Inoltre, è nelle mani di un Parlamento che non solo sta smantellando alcune riforme, sbandierate nell’Unione europea all’epoca del governo Monti come esempio della volontà politica italiana di uscire dalla crisi (ad esempio, il dietrofront rispetto alle timide aperture alla libera concorrenza di alcuni settori protetti; alla riforma del lavoro; alla riforma delle pensioni), ma che approva solo con enorme fatica e al rallentatore, nuovi pacchetti di riforme che si accavallano confusamente, senza un preciso ed organico disegno riformatore, con un calendario che passa, da un giorno all’altro e senza motivo, da cento giorni a sei mesi a tre anni, e che ormai quasi tutti, in Europa, dubitano verranno mai concretamente attuate.

Quali sono i più recenti risultati di questi tre anni, in cui l’Italia ha cercato di “cavarsela da sola”?

Sono due: nell’Unione europea, il governo ha ottenuto la famosa “flessibilità”, consistente in un’ennesima “proroga”, di qualche mese, fino a primavera 2015, per mettere in sicurezza i conti pubblici e definire qualche seria riforma strutturale (questo acquisto di “tempo in più” fa molto affidamento sull’avverarsi dell’annunciato acquisto di titoli di Stato da parte della BCE); a livello internazionale, l’Italia ha ricevuto un “ultimo avviso” dai mercati finanziari, con il citato declassamento dei nostri titoli di Stato, che oggi sono collocati a un solo gradino dal giudizio di junk bond (tradotto: “titolo spazzatura”, cioè un titolo obbligazionario dal rendimento elevato, ma caratterizzato da un alto rischio per l’investitore, tanto che molti investitori non possono nemmeno acquistarli e, se li hanno in portafoglio, sono costretti a venderli) e di cui gli stessi mercati finanziari non hanno ancora tenuto conto, solo perché considerano il profilo delle scadenze del nostro debito e il pagamento degli interessi ancora relativamente gestibili.

La storia non si fa né con i “se”, né con i “ma”: ma se, nell’autunno 2011, l’Italia avesse fatto una scelta diversa, non guidata da un malinteso senso dell’orgoglio nazionale ma dagli interessi veri del Paese, scelta che hanno fatto altri Paesi sovrani, come Irlanda, Spagna, Portogallo e altri, e che ora stanno crescendo più della media europea, oggi saremmo in una situazione economica e sociale migliore o peggiore?

Infine, vi è un aspetto davvero curioso che vorrei sottolineare, sempre con lo scopo di aprire una riflessione: proprio nei Paesi che sono stati oggetto dell’aiuto finanziario dell’Unione europea e che sono stati, per così dire, “governati” dalla “troika”, la fiducia nell’Unione europea è più alta ed è minore la diffusione di movimenti euroscettici e populisti.

Dove, cioè, l’Unione europea è stata più fermamente presente, prendendo in mano le redini della situazione economica nazionale, liberando le energie economiche e cancellando le inefficienze e le rendite di posizione, gli enormi sacrifici fatti dalla popolazione hanno prodotto risultati che ora sono sotto gli occhi di tutti, dando nuova vitalità all’economia e creando nuove speranze di sviluppo.

I sacrifici compiuti dagli italiani in questi ultimi anni che risultati hanno prodotto?

Nell’attuale fase del processo di integrazione europea, promuovere la crescita economica non è un compito che spetta alla Banca centrale europea e anche la stessa Unione europea, per volontà dei suoi stessi Stati membri, è dotata di poteri e di strumenti molto limitati: solo i Governi nazionali possono davvero fare qualcosa per la crescita economica e dare la colpa della propria situazione all’Unione europea (o a qualche Paese “cattivo”) è solo un comodo alibi, dietro cui si nasconde la mancanza di volontà politica.

Perché promuovere la crescita economica è una questione di volontà politica.

ACCESSO DIRETTO ALLE FONTI DI INFORMAZIONE:

Sui meccanismi europei di assistenza finanziaria che sostengono gli Stati membri dell’Unione europea in difficoltà e preservano la stabilità finanziaria dell’Unione e dell’area dell’euro, si veda il sito della Commissione europea, dove sono anche indicati i Paesi dell’Unione che sono stati o sono ancora oggetto dei programmi di assistenza.

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