Siamo cittadini europei di “serie B”?

14 dicembre 2014 di Mauro Varotto

Sin dalle origini, l’integrazione europea si è caratterizzata come un processo di ampliamento delle nostre libertà e dei nostri diritti: dalle libertà di circolare, lavorare e studiare liberamente nei Paesi dell’Unione europea, alla libertà di fare impresa, cioè di produrre, acquistare o di vendere nei medesimi Paesi, fino al riconoscimento dei nostri diritti fondamentali di cittadini, di lavoratori, di consumatori o di utenti di servizi pubblici.

Tuttavia, viviamo in un Paese le cui istituzioni, sin dalle origini del processo di integrazione europea, hanno fatto di tutto per negare o per limitare queste nostre nuove libertà e questi nuovi diritti.

Lo hanno fatto e, in parte, lo continuano a fare in vari modi.

Ad esempio, ritardando l’applicazione del diritto dell’Unione europea in Italia o applicandolo in modo parziale o sbagliato: come ho evidenziato in un precedente articolo, siamo il Paese dell’Unione più negligente nella tempestiva e corretta applicazione del diritto dell’Unione europea.

Forse non è a tutti chiaro, ma spetta alla pubblica amministrazione nazionale, regionale e locale, assicurare la tempestiva e corretta applicazione del diritto dell’Unione europea: le numerose violazioni del diritto dell’Unione europea significano che le istituzioni nazionali, ma in molti casi anche le nostre regioni, le provincie e i comuni, ci impediscono, come cittadini e come imprese, di usufruire di libertà e di diritti riconosciuti in altri Paesi dell’Unione.

Ogni sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che condanna l’Italia per inadempienze del diritto dell’Unione europea è una condanna rivolta a una pubblica amministrazione che non compie il suo dovere, non una condanna dei cittadini o delle imprese italiane.

Alle origini di questo fenomeno, tutto italiano, a mio avviso, c’è un problema culturale.

Un problema che ha origine in una carenza del nostro sistema di insegnamento universitario, in particolare di quei corsi di laurea, a partire da giurisprudenza, nei quali il diritto dell’Unione europea dovrebbe essere insegnato.

Quando io mi laureai in giurisprudenza, circa 25 anni fa, il “diritto comunitario”, come allora si chiamava, era un insegnamento “opzionale”: ci si poteva laureare senza conoscere nulla delle istituzioni e delle norme dell’Unione europea.

Inoltre, dopo la laurea, si poteva diventare avvocati, magistrati o notai, ignorando completamente il diritto dell’Unione europea.

La cosa non deve stupire: nel 1963, quando in Italia si decise, dopo un lungo travaglio politico, di permettere anche alle donne di diventare magistrati, la Corte di giustizia dell’Unione europea iniziava a fissare i principi generali dell’ordinamento unionale. I cultori della materia ricorderanno la prima, storica sentenza Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963.

Che cosa fece la nostra Corte costituzionale di fronte all’affermarsi dei nuovi principi dell’ordinamento delle allora Comunità europee, che affermavano che i nuovi diritti creati dalle norme comunitarie a favore di cittadini e imprese non solo dovevano essere direttamente applicati, anche se in contrasto con le norme nazionali, ma, addirittura, dovevano essere tutelati da tutti i giudici nazionali, ai quali qualsiasi persona aveva diritto di rivolgersi?

La Corte costituzionale italiana, nella quale sedevano i più insigni giuristi del Paese, si oppose in ogni modo all’integrazione giuridica europea: ha impiegato oltre 20 anni per riconoscere i principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea e, in particolare, i suoi due principi-cardine, l’effetto diretto e il primato del diritto dell’Unione europea sul diritto interno.

Ma questo ritardo storico non la dice ancora tutta sulle istituzioni del nostro Paese: infatti, un cittadino o una impresa, quali diritti conferiti dall’Unione europea poteva invocare dinanzi a un giudice nazionale, se gli stessi giudici di ultima istanza, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato, per decenni, anche dopo le aperture al diritto dell’Unione europea da parte della Corte costituzionale italiana, hanno continuato a ignorare i citati principi del diritto unionale, aggirando, persino, l’obbligo di ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione per l’interpretazione delle norme dell’Unione?

Potrà sembrare incredibile, ma è l’emblema della arretratezza culturale delle classi dirigenti del nostro Paese (e dello sfascio del nostro intero sistema “giuridico” e non solo “giudiziario”): il supremo organo della nostra giustizia amministrativa, il Consiglio di stato, solo nell’adunanza plenaria n. 8 del 2011 (in lettere, perché qualcuno non pensi ad un refuso: duemilaundici) ha riconosciuto che “è compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del diritto dell’Unione”.

Il “percorso intellettuale” dei giuristi nostrani è durato circa 50 anni, dalla prima sentenza della Corte di giustizia del 1963! 50 anni in cui molti dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione europea non hanno avuto riconoscimento e tutela in Italia.

Oggi la situazione è cambiata?

Ho scorso i siti internet delle “Scuole di giurisprudenza”, come si chiamano oggi le vecchie “facoltà di giurisprudenza” delle università italiane, per capire che cosa è cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, nell’insegnamento del diritto dell’Unione europea.

Non è cambiato nulla: il diritto dell’Unione europea non è un insegnamento obbligatorio e compare, soprattutto, nei percorsi di studi a indirizzo internazionale ed europeo.

Non è cambiato nulla neppure nei criteri di accesso alle professioni legali: se si leggono i decreti ministeriali che hanno indetto i concorsi del 2014 per avvocati, magistrati e notai, si scopre che la conoscenza del diritto dell’Unione europea è, ancora oggi,  facoltativa.

Il “diritto comunitario”, come si ostina a chiamarlo il nostro ministero della giustizia (sarebbe un po’ come continuare a chiamare “diritto albertino” il diritto italiano, anche dopo l’unificazione d’Italia …), è una tra le cinque possibili materie a scelta della prova orale dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato (come ho scritto in un precedente articolo, l’Italia è prima in Europa per numero di avvocati); una delle ultime, tra le undici materie della prova orale del concorso per magistrato ordinario. In Italia, si può ancora diventare notai – in un contesto in cui sono sempre di più i matrimoni transfrontalieri o gli acquisti di immobili in altri paesi dell’Unione – senza mai avere sostenuto un esame di diritto dell’Unione europea.

E in quanti concorsi per l’assunzione di dirigenti nella pubblica amministrazione – il soggetto cui spetta l’applicazione del diritto unionale – è prevista una prova sulla conoscenza del diritto dell’Unione europea? Nessuno, se non alcuni bandi per l’assunzione di personale a tempo determinato da impiegare nella gestione di progetti europei (si, perchè i progetti europei sono gestiti, in Italia, soprattutto mediante “precari”).

Eppure, secondo lo studio di una società di consulenza inglese, circa il 70 per cento delle norme che si applicano a cittadini e imprese nei singoli Stati membri, deriva dall’ordinamento dell’Unione europea: come si può oggi fare l’avvocato, il magistrato o il notaio senza una conoscenza approfondita del diritto dell’Unione europea? Come si può fare il dirigente in una pubblica amministrazione, anche locale, senza avere gli strumenti necessari per applicare una direttiva europea sugli appalti pubblici o sul lavoro o sull’ambiente o senza conoscere le regole per gestire dei contributi alle imprese del territorio?

Questa carenza del nostro sistema si traduce, per ogni cittadino e per ogni impresa italiani, in minori libertà e minori diritti.

Sul mercato unico europeo, le nostre imprese combattono con le mani legate da una pubblica amministrazione e da un sistema giudiziario che non sono in grado di offrire e di garantire a esse gli stessi diritti di cui godono le imprese di altri Paesi europei più preparati per sfruttare tutti i vantaggi dell’integrazione europea.

Oltre a una profonda modifica dell’ordinamento degli studi universitari – in particolare, di quelli giuridici – bisognerebbe iniziare a fare studiare anche nelle nostre scuole di ogni ordine e grado i valori e le regole fondamentali dell’Unione europea, partendo da una adeguata formazione degli insegnanti.

Se la nostra scuola deve formare, come si legge in tutti i programmi, “cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo”, risulta davvero inspiegabile – e molto miope – la pressochè totale assenza nella scuola italiana – se si escludono le sporadiche iniziative volontaristiche di qualche scuola o, meglio, di qualche insegnante – di un obbligo di formazione sul percorso e sul significato del processo di integrazione europea, sui valori comuni che sono alla base dell’essere cittadino europeo e, magari, su qualche regola di funzionamento fondamentale delle Istituzioni dell’Unione europea.

Se si vuole favorire davvero la partecipazione attiva e democratica alla vita civile, oggi non è più sufficiente una conoscenza dei concetti e delle strutture sociopolitici del nostro Paese: nelle scuole occorre iniziare a creare dei veri cittadini europei.

ACCESSO DIRETTO ALLE FONTI DI INFORMAZIONE:

Materiali sull’Unione europea per gli insegnanti delle scuole sono disponibili nel server Europa della Commissione europea.

Sulla formazione degli operatori di giustizia nel diritto dell’Unione europea, si vedano le recenti conclusioni del Consiglio del 11 dicembre 2014, intitolate “Formazione degli operatori della giustizia come strumento essenziale per consolidare l’acquis dell’UE“.

Per i piani didattici 2014-2015 dei corsi di laurea in giurisprudenza, si guardi il sito della scuola di giurisprudenza dell’Università di Bologna, la prima università italiana a comparire, ma solo al 182° posto, nel decimo Qs University Ranking, una delle più accreditate classifiche internazionali dell’alta formazione, che prende in esame circa 3.000 università di tutto il mondo,

I bandi dei concorsi 2014 del Ministero della Giustizia italiano sono pubblicati nel relativo sito internet.

 

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