Il Regno Unito è compatibile con il progetto di integrazione europea?

21 giugno 2016 di Mauro Varotto

L’idea di indire un secondo referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea è nata nel corso della campagna elettorale per le elezioni europee – ma guardando alle elezioni politiche interne del maggio 2015 – quando David Cameron, per racimolare qualche voto, si è impegnato, nel caso di conferimento di un secondo mandato come primo ministro, a indire, entro la fine del 2017, un tale referendum.

Appena rieletto, quindi, ha presentato un disegno di legge di iniziativa governativa, l’European Union Referendum Bill, che ha concluso l’iter parlamentare il 14 dicembre 2015 e che riporta la formulazione del quesito referendario al quale i sudditi di Sua maestà saranno chiamati a rispondere giovedì prossimo:

Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?

La data del referendum è stata fissata per il 23 giugno solo dopo una rapidissima fase di “rinegoziazione” delle condizioni per la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, che si è conclusa nel Consiglio europeo di Bruxelles del 18 e 19 febbraio 2016.

In questo articolo presenterò, da un lato, le richieste del Regno Unito e, dall’altro lato, le risposte fornite dall’Unione europea, al fine di stimolare una riflessione sulla effettiva “compatibilità” del Regno Unito con il progetto e con il processo di integrazione europea, perché, indipendentemente dall’esito del voto, il tema è proprio questo: il Regno Unito è un ostacolo o uno stimolo all’Unione europea?

 

Il dilemma britannico: essere o non essere europei?

Quello che si svolgerà tra due giorni non è il primo referendum degli inglesi sull’adesione all’Unione europea.

Il Regno Unito è membro dell’Unione europea dal 1° gennaio 1973, dopo il sostanziale fallimento del suo progetto di Associazione europea di libero scambio, fondata il 3 maggio 1960, proprio come alternativa all’allora Comunità economica europea (CEE).

Solo un anno dopo l’adesione, alle elezioni dell’autunno 1974, il laburista Harold Wilson impostò la campagna elettorale sull’impegno a rinegoziare le condizioni di adesione alla CEE, promettendo ai sudditi inglesi un referendum consultivo sulla permanenza del paese nella CEE. La vittoria di Wilson diede avvio a un negoziato tra Regno Unito e CEE su aspetti del tutto marginali dell’accordo di adesione, di cui gli osservatori faticavano a cogliere il senso. Comunque, il referendum, svoltosi nel 1975, determinò una larga vittoria dei “si” (67%).

Qualcuno ricorderà anche la strenua battaglia di Margaret Thatcher per riuscire a pagare meno contributi al bilancio della CEE: sfociò, nel 1984, in un compromesso, in base al quale il governo inglese, da allora sino ad oggi, riuscì a strappare il famoso “rimborso” di parte dei suoi contributi al bilancio comunitario (circa i due terzi del contributo netto).

 

La posizione di privilegio del Regno Unito nell’Unione europea …

Oggi il Regno Unito gode di una posizione di assoluto privilegio all’interno dell’Unione europea, non solo perché paga meno contributi rispetto agli altri Paesi, ma anche grazie ad alcune clausole di opting-out su numerose politiche unionali:

  • non aderisce alla Convenzione di Schengen e, quindi, è libero di mantenere i controlli alle sue frontiere esterne;
  • non aderisce all’unione monetaria europea, né ha adottato l’euro come moneta;
  • aderisce solo a determinate condizioni alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, entrata in vigore con il Trattato di Lisbona;
  • è libero di scegliere, caso per caso, se partecipare al processo legislativo sul cosiddetto “spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia”, che comprende materie quali la cooperazione giudiziaria, la cooperazione di polizia e le politiche frontaliere. In questi ambiti, il diritto dell’Unione europea non è vincolante per il Regno Unito.

 

… e le richieste di nuovi privilegi

Eppure, nonostante questa situazione, in cui un Paese membro dell’Unione europea sfrutta tutti i vantaggi del mercato unico, senza assumere i medesimi oneri degli altri Paesi aderenti, con una lettera del 10 novembre 2015, indirizzata alle più alte Istituzioni dell’Unione europea e ai capi di Stato e di governo dei paesi dell’Unione, il primo ministro inglese, David Cameron, ha presentato alcune “proposte di riforma dell’Unione europea”, pretendendo che fossero subito discusse nel merito, in occasione delle immediate riunioni del Consiglio europeo e vincolando la permanenza del Regno Unito nell’Unione all’accettazione integrale di tali nuove richieste.

Le proposte riguardavano quattro ambiti di attività dell’Unione e alcune di esse, secondo il Regno Unito, avrebbero richiesto una modifica dei Trattati:

  1. Governance economica

Il governo britannico chiedeva di definire dei principi giuridicamente vincolanti a tutela del mercato unico e degli interessi degli Stati membri che non fanno parte della zona euro. Tali principi avrebbero dovuto comprendere, ad esempio, il divieto di discriminazioni e svantaggi per le imprese in base alla moneta; il carattere non vincolante delle decisioni dell’Eurogruppo, come la creazione di un’unione bancaria, per gli Stati membri che non aderiscono all’euro; l’esclusione di ogni responsabilità finanziaria dei contribuenti degli Stati membri che non aderiscono all’euro per le misure a sostegno dell’euro.

  1. Competitività

Il governo inglese riteneva necessario un maggiore e più incisivo impegno per rafforzare la competitività e la produttività dell’Unione europea e promuovere crescita e occupazione. A tal fine, sollecitava azioni volte a ridurre gli oneri normativi per le imprese e ad attuare pienamente la libera circolazione di merci, servizi e capitali.

  1. Sovranità

Il medesimo governo britannico si dissociava dalla partecipazione al processo di creazione di “un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, sancito all’art. 1 del Trattato sull’Unione europea, chiedendo che una tale dissociazione fosse resa irreversibile e giuridicamente vincolante. Inoltre, rivendicava un ruolo più forte dei parlamenti nazionali nel processo decisionale europeo, proponendo di attribuire a un numero minimo di parlamenti nazionali il potere di bloccare un’iniziativa legislativa dell’Unione (il cosiddetto “cartellino rosso”). Chiedeva, infine, un rispetto rigoroso del principio di sussidiarietà e del diritto di opting-out degli Stati membri in materia di giustizia e affari interni.

  1. Immigrazione

Infine, per fare fronte alla pressione migratoria, il governo inglese proponeva, innanzitutto, un inasprimento dei controlli sulla libera circolazione delle persone e la repressione di ogni abuso del diritto di libera circolazione delle persone. In secondo luogo, per ridurre il numero di immigrati provenienti da altri Stati membri della stessa Unione europea e l’attrattività del sistema britannico di assistenza sociale, chiedeva di subordinare l’accesso ai benefici per i lavoratori e all’edilizia sociale a un periodo di presenza nel territorio nazionale e di contribuzione di almeno quattro anni.

 

La nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea

Chi ha una, seppur minima, conoscenza del diritto dell’Unione europea, si rende conto che si tratta di richieste in gran parte inconsistenti e pretestuose: sia perché si riferiscono a norme di favore per il Regno Unito già in vigore; sia perché riguardano temi, quali la competitività, che sono già al centro dell’attività dell’Unione europea e che, comunque, dipendono da una pluralità di istituzioni, anche nazionali. Per non parlare dello strumento del “cartellino rosso” (“red card”) che finisce per comunicare un messaggio davvero fuorviante: che i parlamenti nazionali siano chiamati a svolgere solo un ruolo di freno e di opposizione nel processo decisionale europeo.

Ad ogni modo, la puntuale risposta a tutte le nuove richieste del primo ministro inglese è stata data dai capi di Stato e di governo degli altri paesi membri, in una “Nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea”, cui è allegata un’articolata serie di ben sette documenti, approvata all’unanimità alla fine del Consiglio europeo che si è tenuto a Bruxelles il 18 e 19 febbraio 2016.

L’allegato I contiene la “Decisione dei capi di Stato o di governo, riuniti in sede di Consiglio europeo, concernente una nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea” e, come si legge, “offre la garanzia giuridica che le questioni che preoccupano il Regno Unito, che figurano nella lettera del 10 novembre 2015, sono state affrontate”.

Quali sono i contenuti salienti di questa “nuova intesa”?

Sul tema della governance economica, si afferma che l’Unione economica e monetaria proseguirà e si approfondirà e che i Paesi che desiderano starne fuori possono farlo, senza subire ritorsioni di alcuna natura, come avviene già oggi.

Sul tema della competitività, l’intesa ribadisce che l’instaurazione di un mercato interno nel quale sia assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali è e resta un obiettivo fondamentale dell’Unione e che, al fine di garantire tale obiettivo e creare crescita e posti di lavoro, l’Unione europea continuerà ad accrescere la competitività mediante apposite politiche.

Sul tema della sovranità, l’intesa sottolinea che i Trattati già oggi consentono un’evoluzione verso un più profondo livello di integrazione tra gli Stati membri che condividono una tale visione del loro futuro comune, senza che ciò valga per altri Stati membri.

Sul ruolo dei parlamenti nazionali nel processo decisionale dell’Unione, l’accordo richiama e conferma quanto già previsto dal protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato ai vigenti trattati, e cioè che i pareri motivati emessi dai parlamenti nazionali devono essere tenuti in debita considerazione da tutte le istituzioni coinvolte nel processo decisionale dell’Unione.

Sul quarto tema, quello dell’immigrazione, soprattutto da uno Stato membro all’altro, nella nuova intesa con il Regno Unito si legge:

La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è una parte integrante del mercato interno che comporta, tra l’altro, il diritto dei lavoratori degli Stati membri di accettare offerte di lavoro ovunque nell’Unione. I livelli diversi di retribuzione esistenti negli Stati membri rendono alcune offerte di lavoro più attraenti di altre, con conseguenti spostamenti quale effetto diretto della libertà del mercato. Tuttavia, i sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri, che la normativa dell’Unione coordina ma non armonizza, sono strutturati in maniera diversa e questo può di per sé attrarre lavoratori verso taluni Stati membri. È legittimo tenerne conto e prevedere, a livello sia di Unione che nazionale e senza creare direttamente o indirettamente discriminazioni ingiustificate, misure volte a limitare flussi di lavoratori di ampiezza tale da produrre effetti negativi sia per gli Stati membri di origine che per quelli di destinazione.

A tal fine, vengono fissati alcuni criteri di interpretazione della normativa vigente dell’Unione:

  • gli Stati membri hanno facoltà di definire i principi fondamentali dei loro sistemi di sicurezza sociale;
  • il diritto di libera circolazione dei cittadini dell’Unione deve essere esercitato, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati;
  • le persone che godono del diritto di libera circolazione devono rispettare le leggi dello Stato membro ospitante;
  • infine, la Commissione europea si impegna a modificare il regolamento (EU) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione “per tener conto del fattore di attrazione costituito dal regime di uno Stato membro in materia di prestazioni collegate all’esercizio di un’attività lavorativa”. In pratica, verrà istituito un meccanismo di allerta e salvaguardia, sotto il controllo della Commissione europea, per rispondere a situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale e per un periodo di tempo prolungato. In questi casi, lo Stato membro interessato notificherebbe alla Commissione e al Consiglio l’esistenza di una siffatta situazione eccezionale di entità tale da ledere aspetti essenziali del suo sistema di sicurezza sociale e, su proposta della Commissione, “il Consiglio potrebbe autorizzare lo Stato membro interessato a limitare nella misura necessaria l’accesso alle prestazioni a carattere non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa”, per un periodo totale di massimo quattro anni dall’inizio del rapporto di lavoro. “La limitazione dovrebbe essere regressiva, evolvendo da una completa esclusione iniziale a un accesso gradualmente crescente a tali prestazioni per tener conto del crescente collegamento del lavoratore con il mercato del lavoro dello Stato membro ospitante. L’autorizzazione avrebbe durata limitata e si applicherebbe ai lavoratori nuovi arrivati nell’UE per un periodo di 7 anni”.

 

Speriamo che questo referendum consenta di dire ciò che ha scritto, in un eloquente e ironico tweet, la presidente lituana, Dalia Grybauskaite, dopo l’intesa con la Gran Bretagna al Consiglio europeo del febbraio scorso: “Drama over”.

  

ACCESSO DIRETTO ALLE FONTI DI INFORMAZIONE:

UNA NUOVA INTESA PER IL REGNO UNITO NELL’UNIONE EUROPEA. Estratto delle conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016, pubblicato in GU UE C 69I del 23.2.2016, p. 1.

 

 

 

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